Accettare un preventivo non sempre vuol dire firmare un contratto d'appalto

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In tema di conclusione del contratto e più nello specifico di un contratto di appaltola semplice accettazione di un preventivo non sta ad indicare necessariamente la volontà delle parti di dare a quel documento la valenza di un vero e proprio contratto.

La valutazione della natura del preventivo accettato, quale contratto o semplice manifestazione di volontà di accettazione delle condizioni proposte è questione afferente all'interpretazione di quel documento; valutazione che è rimessa al giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivata.

Questa, nella sostanza, la conclusione cui è giunta la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 14006, resa mediante deposito in cancelleria il 6 giugno 2017.

Il caso che ha portato alla pronuncia è frequente: un'impresa sottopone al committente un preventivo per l'esecuzione di lavori edili e questo lo accetta, salvo poi tirarsi indietro.

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A quel punto l'appaltatore, ritenendo che il comportamento della controparte fosse qualificabile come recesso, chiedeva il pagamento di una somma – pari al 10% dell'importo complessivo – a titolo di mancato guadagno.

Norma di riferimento è l'art. 1671 c.c. a mente del quale il committente ha facoltà di recedere dal contratto “purché tenga indenne l'appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno”.

La causa di primo grado vedeva l'impresa appaltatrice soccombere: quello firmato tra le parti non era un contratto, ma la semplice accettazione di un preventivo.

Proposto appello, l'appaltatore non aveva maggiore fortuna: il Tribunale – in funzione di giudice di secondo grado – rigettava l'appello considerando legittima la valutazione del giudice di prime cure. Insomma per i giudici di merito tra le parti non era intercorso alcun contratto.

Da qui il ricorso in Cassazione dell'impresa: ricorso che non ha avuto fortuna. Vediamo perché.

La Cassazione prima di arrivare al nocciolo della questione – trattando unitariamente i vari motivi di ricorso – ha inquadrato la vicenda nell'ambito delle norme che regolano l'interpretazione dei contratti.

Le regole codicistiche all'uopo dettate (artt. 1362 e ss. c.c.) prevedono una serie di canoni cui il magistrato adito deve rifarsi per valutare la questione sottopostagli. Prima fra tutte la volontà delle parti.

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L'interpretazione del contratto, dicono gli ermellini sulla scorta del loro unanime orientamento, è attività di competenza del giudice di merito e ove tale compito sia stato svolto correttamente, traducendosi tale correttezza in un adeguata motivazione della decisione, esso non è soggetto a sindacato di legittimità.

Nel caso di specie, precisano i giudici di piazza Cavour, la sentenza impugnata aveva correttamente applicato i canoni ermeneutici previsti dalla legge, qualificando la firma per accettazione del preventivo semplicemente come tale e non quale indice della volontà delle parti di concludere in quel modo il contratto.

Com'era giunto a quella decisione il Tribunale?

Una serie di elementi, si legge in sentenza, erano stati considerati adeguatamente sufficienti a concludere in tal senso, ossia:

a) la mancanza di una descrizione analitica di tempi e modalità dell'esecuzione dell'opera

b) la mancanza di indicazioni in merito al pagamento del corrispettivo

c) più in generale assenza di espressioni idonee ad evidenziare, in modo univoco, il sorgere del reciproco sinallagma contrattuale.

Per la Cassazione, quindi, dire “Ok il preventivo mi va bene e lo accetto sottoscrivendolo” è cosa diversa dal dire “Ok il preventivo mi va bene e sottoscrivendolo concludo un contratto”. Questa differenza va valutata caso per caso in ragione di quanto scritto in quel documento.

Finale della questione: l'impresa non ha ottenuto alcun indennizzo per la mancata esecuzione delle opere.




Fonte: www.condominioweb.com